Intanto le voci su una liquidazione del ghetto continuavano a farsi sempre più pressanti. Circolavano voci che davano una imminente deportazione in massa verso i campi di lavoro. La voce spostava sempre la data di deportazione mano a mano che passavano i giorni e che essa non si avverava. Il 21 luglio “martedì mattina, Goldfeder e io ci recammo all’ufficio amministrativo del Consiglio ebraico. Non avevamo perso la speranza che in qualche modo tutto si sarebbe sistemato e volevamo chiedere notizie ufficiali riguardo ai piani tedeschi per il ghetto per i giorni a venire. Eravamo quasi arrivati davanti all’edificio quando un’auto decappottabile ci passò davanti. A bordo, circondato dalla polizia, pallido e a capo scoperto, il colonnello Kon, responsabile dell’ufficio sanitario della comunità. Oltre a lui erano stati arrestati molti altri funzionari ebrei; per le strade era cominciato un rastrellamento. […] Mercoledì 22 luglio, verso le dieci del mattino, mi recai in città. L’aria che si respirava nelle strade era un po’ meno tesa di quella della sera precedente. Circolava la voce rassicurante che i funzionari del Consiglio arrestati il giorno prima erano stati di nuovo posti in libertà. Dunque i tedeschi non intendevano ancora trasferirci per il momento, perché in questi casi […] cominciavano con l’eliminare anzitutto i funzionari.
Erano le undici quando arrivai sul ponte su via Chlodna. Camminavo profondamente assorto nei miei pensieri e in un primo momento non mi ero accorto di un certo numero di persone immobili sul ponte, che indicavano qualcosa. Subito dopo si dispersero in fretta, in preda all’agitazione.” Stavano infatti arrivando, per circondare il ghetto gli ucraini. Di li a poco sarebbe iniziata la deportazione, o come meglio veniva definita “il trasferimento”. Spuntarono infatti i manifesti che indicavano l’inizio dell’operazione di trasferimento, manifesti che indicavano che ogni cittadino ebreo abile al lavoro sarebbe stato trasferito per lavorare ad Est.
Vennero subito fatte sgombrare le residenze degli anziani, poi gli ospizi dei veterani e i rifugi per la notte. In poco tempo una popolazione di mezzo milione di persone sarebbe stata deportata.
Da subito i tedeschi ricorsero all’estrazione a sorte degli edifici da sgombrare. Poi li circondarono e al loro fischio tutti gli inquilini in casa in quel momento avrebbero dovuto uscire in cortile. Quindi di qualsiasi sesso essi fossero, qualunque età avessero venivano caricati, assieme al loro ridotto bagaglio, su carri trainati da cavalli e trasferiti nella Umshlagplatz, un grande spiazzo che aveva funzioni di centro di raccolta e di transito. Lì le vittime venivano stipate su camion e spedite verso l’ignoto.
La deportazione era iniziata. A coloro che erano rimasti venne detto che avrebbero avuto diritto di rimanere nei loro alloggi, quindi nel ghetto, a patto di avere un contratto di lavoro. Aprirono infatti come funghi delle aziende interne al ghetto. Aziende tedesche che sfruttavano gli ebrei. Queste in cambio di denaro rilasciavano i permessi di lavoro. Coloro che avevano il permesso dovevano appuntarsi sul vestito un biglietto, che in caso di retate serviva per il riconoscimento come lavoratore interno al ghetto, mentre chi non possedeva tale permesso veniva deportato ad Est.
Iniziarono così le lunghe code alle fabbriche alla ricerca di un impiego. Per Wladislaw fu facile trovare un lavoro, come lo fu per tutto il resto della famiglia tranne che per il padre, che ormai era troppo anziano. Ormai disperato Wladislaw, dopo la ricerca durata più di una settimana di un permesso di lavoro per il padre, riuscì a mettere a frutto al meglio le sue conoscenze e la sua fama. Otenne così il permesso anche per il padre. Goldfeder aiutò la famiglia Szpilman a rimanere unita e a trovare lavoro nel centro di raccolta bagagli vicino alla Umshlagplatz. Ma durò poco perché in una calda giornata di agosto l’intera famiglia Szpilman venne caricata su uno di quei carri trainati da cavalli con destinazione Umshlagplatz.
In quella giornata furono stipati in quello spiazzo migliaia di persone. L’attesa sempre più lunga e il sole che si alzava alto nel cielo illuminava la piazza spoglia di ripari. Il caldo e la sete provocava tensioni e molte persone non resistevano. La piazza era invasa dai lamenti e dalle grida. Ad intervalli regolari arrivavano sempre nuovi carri con nuove persone. Ogni tanto qualche soldato delle SS veniva colto dal piacere di sparare a qualcuno. L’intera piazza si ammutoliva, era assurdo, uccidere per puro arbitrio, senza motivi.
Più passavano le ore e più la piazza si riempiva di gente e più il caldo si faceva insopportabile.
Arrivò nel mentre la sera. Giunse l’ora dell’avvio verso i binari per caricare i carri bestiame ed essere deportati. Un lungo cordone di polizia ebraica ed SS convogliava la gente ed assestava qualche manganellata qua e là. Ad un certo punto “Qui, qui, Szpilman! Una mano mi afferrò per il bavero e fui scaraventato all’indietro, fuori del cordone di polizia”. Un poliziotto ebreo aveva strappato Wladislaw dalla deportazione. Lui cerco di rientrare al di la del cordone che si era di nuovo serrato davanti a lui ma non ne ebbe la forza. Ebbe solo il tempo di salutare per l’ultima volta la sua famiglia.