A quel punto tutti i cittadini ebrei ebbero l’ordine di sgombrare i propri appartamenti per trasferirsi entro i limiti del ghetto appena istituito. Il 15 novembre del 1940 i cancelli del ghetto furono chiusi. Le nuove mura e le palizzate erette a delimitare il “quartiere ebraico” costituivano una sorta di gabbia dove all’interno, come in un formicaio, brulicavano mezzo milione di persone. Mezzo milione di persone in uno spazio che bastava appena per centomila. Mezzo milione di persone che affollavano le strade buie del ghetto con al braccio una striscia di stoffa bianca con una stella di David. Quelle mura erano sorvegliate ed invalicabili, nessun ebreo avrebbe più potuto oltrepassare quei cancelli.
“oggi quando mi tornano alla mente ricordi ancora più terribili, le esperienze vissute nel ghetto di Varsavia dal novembre del 1940 al luglio del 1942, un periodo di quasi due anni, esse diventano un’unica immagine quasi che fossero durate un unico giorno. Per quanto mi sforzi non riesco a frazionarlo seguendo un certo ordine cronologico, come si fa di solito quando si tiene un diario.”
Il ghetto era una sorta di grande riserva di caccia per le SS naziste. I tedeschi andavano a caccia di selvaggina umana da catturare ed usare come bestie da soma. Avveniva questo in tutta Europa. Intanto la Germania nel 1941 invase la Russia. In tutto il ghetto si cercava di seguire col fiato sospeso le sorti di quel nuovo fronte. Tutti si illudevano che i tedeschi avrebbero finalmente perso ma le truppe di Hitler continuavano ad avanzare. Ma ci fu un fatto che risollevò gli animi degli ebrei: “quando i tedeschi ingiunsero agli ebrei di consegnare le pellicce, pena la morte se non lo avessero fatto, le cose non dovevano andare particolarmente bene visto che la loro vittoria dipendeva da pellicce di volpe argentata o di castoro”. Intanto il ghetto col passare del tempo si restringeva sempre di più, strada dopo strada, come una rete che si raccogliere per catturare la preda togliendogli mano a mano la libertà. Una libertà che, intanto, ormai non esisteva più. “Credo che sarebbe stato per noi psicologicamente più facile da sopportare se fossimo stati, ad esempio, effettivamente rinchiusi in una cella. Questo genere di carcerazione senza dubbio definisce nettamente il rapporto di un essere umano con la realtà. E’ una situazione inequivocabile: la cella è un mondo a se senza alcun rapporto con il lontano mondo della libertà. Se hai il tempo e la propensione per farlo puoi sognare di quel mondo, ma se non ci pensi non entrerà di forza nella tua mente. Non è sempre davanti ai tuoi occhi, a torturarti con i ricordi della libertà che hai perso.
La realtà del ghetto era tanto peggiore proprio perché aveva la parvenza della libertà. Si poteva uscire in strada serbando l’illusione di trovarsi in una città assolutamente normale. Le fasce che portavamo sul braccio e che ci marchiavano in quanto ebrei non ci turbavano perché le portavamo tutti. E, dopo aver vissuto un po’ di tempo nel ghetto, mi resi conto che ci avevo fatto l’abitudine, al punto che quando sognavo i miei amici ariani li vedevo con la fascia al braccio, quasi che quella fascia di tessuto bianco fosse parte integrante dell’abbigliamento umano, al pari di una cravatta. Tuttavia, le strade del ghetto, e solo quelle strade, facevano sempre capo a dei muri. Spesso io uscivo a camminare senza una meta precisa, seguendo il mio istinto e quando meno me lo aspettavo mi ritrovavo di fronte a uno di quei muri”.
Il ghetto dava l’illusione della libertà, torturava i suoi abitanti costantemente. Il ghetto diventava il mondo all’interno del quale tutto poteva succedere. Nel ghetto c’erano dei bar, anche di classe, si poteva persino andare al ristorante. In quei luoghi si potevano incontrare gli amici e tutto sembrava essere normale, fino a che “arrivava inevitabilmente il momento in cui un amico buttava lì che sarebbe stato simpatico, per quel nostro gruppetto impegnato in una conversazione tanto piacevole, fare una gita in una bella giornata domenicale, per esempio a Otwok […] e nulla avrebbe potuto vietarti di attuare un progetto tanto semplice […] sarebbe bastato pagare il conto del caffè e delle paste, uscire, dirigersi verso la stazione con i tuoi amici allegri e spensierati, acquistare i biglietti e salire sul treno che portava fuori città. Esistevano tutte le condizioni per creare un’illusione perfetta. Ma poi, di colpo, ti si parava davanti il muro.”
Intanto la vita all’interno del ghetto doveva continuare, con i suoi rituali. I suoi nuovi rituali fatti di regole e di paure, anche immaginarie.
Szpilman era solito uscire di casa subito dopo la prima colazione per dirigersi per via Mila fino a un a buia stamberga dove viveva la famiglia di Juhuda Zyskind. Quell’uomo faceva qualsiasi lavoro all’interno del ghetto: il corriere, l’autista, il venditore, il borsanerista. Tuttavia, a parte queste occupazioni date dalla necessità continua di avere denaro per sfamarsi, egli era un socialista. Egli si teneva in contatto con l’organizzazione socialista esterna e così poteva far arrivare notizie all’interno del ghetto. Stampava anche una sorta di volantino che includeva le notizie pervenute dalla radio. Avere una radio nel ghetto o produrre informazione al suo interno era un reato punibile con la morte. Infatti Jehuda sopravvisse fino all’inverno del 1942 quando fu colto in flagrante con pile di materiale segreto sul tavolo che lui stava selezionando con l’aiuto della moglie e dei figli. “Furono fucilati tutti all’istante, perfino il piccolo Symche, che aveva tre anni.”
Il ghetto di Varsavia era costituito da due parti. Si divideva, infatti, in ghetto piccolo e ghetto grande, separati tra loro da via Chlodna. Una via “ariana” che spartiva in due zone il ghetto. Il ghetto grande occupava tutta la parte settentrionale della città ed era formato da un dedalo di strade e vicoli sporchi e male odoranti. In quella zona vi era un’altissima concentrazione di popolazione. Le stanze erano piccole e sovraffollate, le strade quasi impercorribili. In quella zona, abitata in prevalenza da poveri i parassiti erano una grossissima piaga. Il ghetto piccolo, invece, era più vivibile. La concentrazione di popolazione era più ridotta e i suoi abitanti facevano parte della ricca borghesia o dell’intellighenzia ebraica ed erano più tutelati nei confronti dei parassiti. Via Chlodna separava le due zone del ghetto. Gli uomini d’affari o chiunque dovesse per qualunque ragione recarsi nella parte grande del ghetto doveva attraversare la via “ariana”. Ovviamente l’attraversamento non era libero. Soldati tedeschi e cancellate di ferro regolavano l’attraversamento. Gli ebrei dovevano stare anche per lungo tempo in piedi ad aspettare che i nazisti si degnassero di fermare il traffico e di aprire i cancelli per l’attraversamento. Succedeva così che si verificavano momenti di tensione e anche momenti di svago per i soldati di guardia che si divertivano a schernire gli ebrei. “Uno dei loro divertimenti preferiti era il ballo. Musicanti venivano reclutati nelle strade li attorno, e il numero di queste orchestrine di strada cresceva al pari dell’infelicità generale. Dalla folla in attesa i soldati sceglievano persone dall’aspetto giudicato particolarmente buffo e ordinavano loro di ballare i valzer. I suonatori si sistemavano accosto al muro di un edificio, la strada veniva sgombrata e uno dei soldati si metteva a dirigere picchiando i suonatori se riteneva che suonassero troppo a rilento. Altri controllavano che i balli fossero eseguiti a regola d’arte.”
Superata indenne l’avventura quotidiana di attraversare via Chlodna si parava davanti lo spettacolo del ghetto grande. Strade affollate, colme di mendicanti che chiedevano soldi o cibo, pazzi, donne e bambini che avvicinavano i passanti per vendere loro qualche dolcetto, moribondi che regolarmente costellavano, con i loro corpi deperiti dalla fame, i marciapiedi e che lentamente si spegnevano, i tram a cavallo dei due ricchi proprietari ebrei, al servizio della Gestapo, Kon e Heller (da cui il nome dato ai loro tram Konhellerki) che fendevano senza pietà la massa umana del ghetto. “Il semplice tragitto dalla fermata del tram al negozio più vicino era tutt’altro che facile. Dozzine di mendicanti aspettavano solo un fugace incontro con un concittadino prosperoso per circondarlo, tirandolo per i vestiti, sbarrandogli la strada, supplicando, piangendo, urlando e minacciando.”
Al centro del ghetto era posto il carcere della Gestapo, in vicolo Szuch. Qui si tenevano gli interrogatori. Spesso avvenivano retate nel ghetto e i furgoni cellulari trasportavano i prigionieri al carcere per gli interrogatori. Questi furgoni percorrevano le vie del centro numerose volte al giorno per portare i prigionieri ancora sai e per riportare nelle loro abitazioni i poveri brandelli sanguinolenti e quasi privi di vita che ne rimanevano. Era pericoloso passare per il centro dal momento che questi furgoni percorrevano le vie senza pietà, facendosi largo tra la folla impaurita alla sola visione. Spesso per divertimento gli uomini della Gestapo si sporgevano dai furgoni per assestare qualche manganellata alla folla. “Il che non sarebbe stato particolarmente pericoloso se si fosse trattato di normali manganelli di gomma, ma quelli usati dagli uomini della Gestapo erano rinforzati da chiodi e da lamette da barba”.
Il ghetto era come una sorta di grande girone infernale dove le persone scontavano la loro pena per una colpa assurda: essere ebrei e dove i demoni, i nazisti, li punivano per questo.
La famiglia di Wladislaw come ogni famiglia del ghetto si trovava alle prese con la miseria e con la necessità di trovare sempre più soldi per riuscire a pagare il cibo che per la sua scarsezza diveniva sempre più caro. Henryk era il fratello di Wladislaw. “La vita di Henryk era dura. Era lui che l’aveva scelta e non aveva alcuna intenzione di cambiarla, convinto che sarebbe stato spregevole vivere in qualsiasi altro modo. Gli amici che apprezzavano le sue risorse culturali gli avevano consigliato di entrare nella polizia ebraica come faceva la maggior parte dei giovani appartenenti all’intellighenzia. Lì era al sicuro e se ci sapevi fare potevi guadagnare dei bei soldi. Ma Henryk non ne volle assolutamente sapere. Si arrabbiò anzi moltissimo e lo prese come un insulto. Ancora una volta diede mostra del suo rigore morale dichiarando che non intendeva lavorare con dei banditi! La sensibilità dei nstri amici ne fu urtata, ma Henryk cominciò ad andare in via Nowolipki tutte le mattine con una cesta piena di libri. Ne faceva commercio, standosene là, madido di sudore d’estate e scosso dai brividi durante le gelate invernali […]”.
La famigli Szpilman era molto legata ai ritmi e alla conservazione di una certa parvenza di normalità, ad esempio, la testimonianza che Wladislaw ci ha portato ci parla del fatto che la sua famiglia anche se fosse quasi tutta riunita per ora di pranzo, fino a che non fossero rientrati tutti non dava via al pasto. La madre di Wladek aspettava tutti quanti prima di portare in tavola la zuppiera con la minestra “alla mamma stava molto a cuore il fatto che mangiassimo tutti riuniti: lì era lei la sovrana e, a suo modo, cercava di darci qualcosa a cui aggrapparci. Curava che la tavola fosse apparecchiata bene e che la tovaglia e i tovaglioli fossero puliti. Prima di venirsi a sedere con noi, si passava un velo di cipria sul volto, si sistemava i capelli e si guardava allo specchio per vedere se appariva elegante. […] Quando eravamo tutti seduti attorno al tavolo, lei arrivava dalla cucina con la zuppiera e, mentre scodellava nei piatti, dava inizio alla conversazione. Faceva in modo che nessuno accennasse ad argomenti spiacevoli […]”.
Regina, la sorella di Wladislaw, lavorava in uno studio legale, guadagnava poco ma lavorava con grande impegno. Halina, l’altra sorella, era invece schiva e riservata. Di lei non si sapeva molto, neppure dove andasse quando usciva.
Tutti cercavano di lavorare onestamente, senza trattenere rapporti di nessun genere con i nazisti e senza ricorrere alla borsa nera. Una pratica molto diffusa all’interno del ghetto. Un tipo di commercio che poteva fare arricchire molto, alle spese comunque della povera gente. A questo tipo di commercio ricorrevano persone di qualunque età. Corrotti che per questo riuscivano a introdurre all’interno del ghetto le merci, le donne che nelle ore notturne stavano appostate aspettando che dalla parte ariana del muro venissero gettate loro delle sacche contenente gli oggetti da vendere e i bambini che potevano sgattaiolare fuori dal ghetto e rientrare attraverso i fori dei muri che servivano da scolo delle acque. I bambini, comunque correvano gli stessi rischi degli adulti. Se venivano colti in flagrante dai nazisti venivano puniti e la punizione era la morte. Wladislaw racconta che una sera vide un bambino rientrare da uno di quei fori nel muro, lo vide entrare fin quasi alla vita, dopo aver fatto passare l’enorme sacco che portava. Era li, sotto i suoi occhi quando iniziò ad urlare dal dolore. Dalla parte ariana del ghetto urla e insulti, calci e pugni ricoprivano quel corpicino. Wladek tentò di aiutarlo a rientrare, tirandolo per le braccia ma dall’altra parte non lo lasciarono fino a quando non gli spezzarono la spina dorsale a forza di percosse. Szpilman riuscì a tirare a se il corpo, ma ormai il bambino era privo di vita.