A gennaio i tedeschi si erano ritirati senza combattere. L’armata rossa si accingeva ad entrare in città. Quando Wladislaw sentì le voci di donne e bambini, voci che non udiva da mesi, corse in strada per avere delle notizie. Ma aveva il capotto nazista addosso e quelle persone cominciarono a urlare. “Lei mi fissò, lasciò cadere il fagotto e si mise a correre urlando: Un tedesco! Subito la donna soldato si girò, mi vide, alzò la mitraglietta e sparò.”
Szpilman stava per essere ucciso dopo la liberazione per un equivoco. Si nascose di nuovo nell’edificio che per giorni lo ospitò. Riuscì a raccogliere le idee. “Presi a scendere lentamente le scale urlando con tutta la forza che avevo in corpo: Non sparate, sono polacco!”
“Due settimane più tardi, assistito nel modo migliore dai militari, pulito e riposato, passeggiavo tranquillamente per le strade di Varsavia. Un uomo libero, per la prima volta, dopo sei anni. Ero diretto ad est, verso la Vistola, volevo raggiungere Praga, un tempo un sobborgo povero di Varsavia, ma ora era tutto quello che restava in piedi della città […]”
Qualche tempo più tardi tornò a Varsavia Zygmund Lednicki, un violinista che partecipò alla rivolta. Durante il suo viaggio di ritorna, a piedi, era passato davanti ad un campo di raccolta provvisorio per prigionieri di guerra e raccontò a Szpilman di aver trovato un ufficiale nazista che alzatosi faticosamente dal luogo dove era seduto chiese se qualcuno conoscesse Szpilman. Le guardie sovietiche lo zittirono. Al racconto di Lednicki Wladislaw si fece condurre nel luogo dove sorgeva quel campo, ma dei prigionieri non c’era traccia. Szpilman non riuscì a trovare l’ufficiale che lo aveva aiutato.
Morì in prigionia in un campo sovietico sette anni dopo la fine della guerra.