Michael Jordan
“Michael Jeffrey Jordan”. Questa l’invocazione di Flavio Tranquillo quando Michael insacca la palla dell’ottantasettesimo punto a favore di Chicago, nella finale contro Utah, 1998. Forse un tributo, un omaggio alla leggenda, a colui che si è mostrato letteralmente il più forte di tutti, uno dei pochi con la determinazione di un vero campione.
Attraversa l’infanzia “tipica” di una persona che da grande sarà qualcuno; quarto di cinque fratelli, riceve molto amore materno e grande avversione da parte del padre, qualcosa che lo renderà poi capace di cercare con forza la determinazione che gli serve per diventare quello che poi è diventato.
Per acclamazione e per stile di gioco è forse il giocatore dell’ NBA più forte di tutti i tempi. Vince i primi tre titoli con i Chicago Bulls e dopo la morte del padre, con sgomento lascia il Basket e si dedica al baseball. Abbandona tutto perché vuole che quella persona a volte un po’ ostile, un po’ fredda, ma che comunque lo ha aiutato a crescere prima come persona, poi come leggenda, vedesse tutte le sue partite.
Dopo un periodo più o meno lungo alla ricerca di se stesso, in uno sport che chiaramente non fa per lui, torna alla pallacanestro, nella amata NBA, di nuovo nei Chigago Bulls: e indovinate un po’?
Vince altri tre titoli, che faranno di lui il simbolo indiscusso di questo sport in America e nel mondo. É inutile enfatizzare il “peso” che ha avuto nella famosa competizione americana, e quindi quello che poi ha vinto, ma è prezioso capire come sia riuscito ad ottenere quei grandiosi risultati.
Dirà di se stesso: “Non ho mai badato alle conseguenze dello sbagliare un tiro importante." Perché? " Perché, quando pensi alle conseguenze pensi sempre ad un risultato negativo”.